QUO VADIS, AIDA? – Incontro con Hasan Nuhanović
Nell’ambito di Bolzano Città della Memoria 2022 si inserisce anche la visione del film “Quo Vadis, Aida?”, della regista bosniaca Jasmila Zbanić (2020).
Il film ricostruisce i tragici avvenimenti del luglio 1995, che ebbero come conseguenza il genocidio di Srebrenica. La trama si basa sulla storia di Hasan Nuhanović, traduttore presso il battaglione dei caschi blu olandesi, che è stato testimone diretto del genocidio di Srebrenica e promotore del processo contro l’Olanda per responsabilità nel genocidio.
LE CONTROVERSIE DEL FILM
Dopo la visione del film, Hasan Nuhanović ha tematizzato le controversie del processo di costruzione del film.
La collaborazione tra i due si è interrotta dopo dieci anni e diverse versioni del copione. Sono molti i punti critici individuati da Nuhanović, in quanto testimone diretto.
Primo fra tutti il fatto stesso che la sua storia – diventata dopo la rottura con la regista, la storia di Aida – sia quella principale. «Il genocidio ha coinvolto migliaia di persone» dice Nuhanović, «e ad un certo punto della lavorazione del film ero decisamente a disagio nell’essere diventato il personaggio cinematografico intorno a cui girava la narrazione del genocidio di oltre 8.000 persone». Un altro punto critico è proprio il ruolo degli stessi caschi blu olandesi e del colonnello Karremans, comandante del Duchbat. Il battaglione olandese viene rappresentato nel film come premuroso e preoccupato nei confronti della popolazione che cercava la protezione dei caschi blu. Nei ricordi di Nuhanović, e come dimostrano diverse trascrizioni delle telefonate tra Karremans e altri organismi internazionali (ad esempio la catena di comando ONU-UNPROFOR), gli olandesi hanno sostanzialmente consegnato alle truppe di Mladic gli uomini presenti all’interno della base e nei suoi dintorni, sapendo che era già in corso lo sterminio dei musulmani bosniaci.
Un altro punto critico è il taglio stesso dato al film, che inizia in medias res, senza introdurre il contesto, e termina semplificando eccessivamente il processo del post-conflitto, che è complesso e ancora oggi non totalmente compiuto.
Nuhanović, come altri sopravvissuti e testimoni del genocidio, non si sono riconosciuti nella storia raccontata dalla regista. Nonostante ciò, il film si basa su fatti realmente accaduti, ma occorre analizzare criticamente l’equilibrio tra quanto è autentico e quanto invece è la narrazione che Zbanić ha voluto dare. Nuhanović afferma che la regista aveva un obiettivo molto preciso: quello di fare un film che vincesse l’Oscar e ha curvato la narrativa, la verità dei fatti e la stessa storia personale di Nuhanović, per ottenere quello che voleva.
Riportiamo, di seguito, le parole di Hasan Nuhanović rispetto a una scena cruciale del film:
L’umanizzazione del comandante Karremans e altre inesattezze storiche in una scena cruciale del film “Quo Vadis Aida”.
Non posso resistere all’impulso di scrivere qualcosa a proposito di questa scena del film. Il film non l’ho visto, ma non devo vederlo per commentare questa singola scena.
Questa scena è finora la più inesatta rappresentazione della storia [dei fatti] di luglio del 1995. Niente del contenuto della conversazione telefonica mostrata nel film, è successo veramente. Quello che è realmente successo è totalmente all’opposto di quello che si vede e si sente nella scena in questione. Karremans, comandante del battaglione olandese [dei caschi blu] qui, oltre ad una interpretazione completamente sbagliata del contenuto delle comunicazioni tra di lui e i suoi sottoposti, è “umanizzato” – gli è stato dato un volto umano – perché in questa scena è [rappresentato] come una persona e un ufficiale che mostra responsabilità e iniziativa, preoccupazione ed empatia nei confronti di chi era minacciato da un pericolo.
Karremans non ha avuto o mostrato nemmeno una di queste caratteristiche, ma si è comportato in modo completamente opposto rispetto a quello che ci suggerisce questa scena del film. Questo è documentato perfino nei report ufficiali successivamente redatti dall’Olanda, nei quali sostanzialmente si dice che lui [Karremans] ha fallito e che non sapevano di aver affidato la missione [di peacekeeping] alla persona sbagliata.
Esistono alcune possibilità [faccio alcune ipotesi]:
- la regista-drammaturga [Jasmila Zbanić] ha messo insieme questa scena inconsapevole del livello inaccettabile di falsificazione storica (mi riferisco a questa scena);
- lo ha fatto consapevolmente – e dubito di ciò, ma se lo ha fatto inconsapevolmente significa che ha approcciato la narrativa sul genocidio di Srebrenica – nel quale gli olandesi, insieme ai serbi, hanno avuto un ruolo cruciale – in modo amatoriale, nelle parti dove tratta aspetti importanti e dei quali, a questo punto, non avrebbe dovuto occuparsi;
- ha rimpinguato la narrativa filmografica con questa scena per qualche dinamica drammaturgica, ignorando il danno che ha provocato. Sarebbe stato meglio che avesse completamente evitato questa scena, perché proprio con questa scena fornice a Karremans e agli olandesi l’alibi che bramavano da 25 anni, e l’autrice glielo ha offerto gratis, cosa che non era assolutamente obbligata a fare perché il suo film, secondo le sue stesse affermazioni, non aveva la pretesa di essere una ricostruzione storica, bensì una storia drammatica inserita nel contesto della situazione di Potočari [Srebrenica], senza l’ambizione di interpretare la storia.
Karremans non ha mai fatto una telefonata simile [a quella del film], ma si è chiuso nel suo ufficio dopo l’incontro con Mladić, ordinando di non essere disturbato perché aveva la dissenteria – e anche questo è documentato.
Nel film – se doveva essere un artefatto minimalista, “ascetico” come ha detto Pasović difendendo [dalle critiche] la sua collega regista e la libertà di espressione artistica – sarebbe bastato vedere la porta dell’ufficio di Karremans chiusa, immagine rappresentativa di quello che è poi successo, ovvero che ha tradito i profughi [circa 25.000 civili di Srebrenica] e il suo battaglione, lasciandoli nelle mani di Mladić. Questo lo avevo già suggerito all’autrice quando ancora collaboravamo alla drammaturgia, proprio per evitare errori capitali come questo. Voglio dire che se scendi nei dettagli, allora deve risultare quello che è veramente successo, sennò eviti di farlo. Vedo [da questa scena] che l’autrice si è cimentata con l’improvvisazione e non doveva esserci improvvisazione in scene di questa importanza. La porta chiusa dell’ufficio di Karremans avrebbe rappresentato metaforicamente, simbolicamente e nei fatti, molto meglio il comportamento di Karremans in quella situazione.
Dal suo ufficio, Karremans, poteva chiamare telefonicamente chiunque nel mondo. Non ha chiamato nessuno. Questa è complicità, se me lo chiedete: guardare con i propri occhi il genocidio e tacere. E anche questo è documentato.
Quando gli hanno telefonato dalla cancelleria del premier olandese e gli hanno chiesto quanti maschi [musulmani] c’erano a Potočari [sede della base del battaglione olandese, vicino a Srebrenica], lui ha risposto “very few”, molto pochi. E a Potočari, in quel momento, ce n’erano circa 2.000. E sono stati tutti uccisi. In questo modo, Karremans, ha moltiplicato i maschi presenti a Potočari per zero. E anche questo è documentato. Questo avrebbe dovuto stare nel film, invece della scena inventata con cui l’autrice fallisce completamente e fino in fondo la prova.
È irresponsabile, non-professionale, immorale e non-etico, che l’autrice abbia buttato dentro nel film questa scena completamente scorretta dal punto di vista storico, che fornisce agli spettatori una fotografia completamente diversa da quella che si è verificata nella realtà.
Alcune iniziative individuali ci sono state, da parte di alcuni militari e sottufficiali del battaglione olandese. Queste non hanno modificato il risultato finale [il genocidio], ma quelle bisognava far vedere nel film e forse in qualche modo è stato fatto. Il comandante Karremans, con le sue azioni – e così altrettanto il battaglione dei caschi blu che comandava – è complice nel genocidio. Questa scena inventata relativizza questo fatto.
Cari cittadini della Bosnia-Erzegovina, sento la responsabilità di commentare questa scena del film, perché vedo che finora nessun altro lo ha fatto in questi termini e come autore del libro che è citato come ispirazione per il film, sento questa responsabilità. Farei lo stesso anche se il film non fosse ispirato al mio libro. In realtà il film è in gran parte basato sul mio libro, ma altrettanto, in altre parti si discosta non solo dal mio libro, ma anche da altre fonti documentali, che l’autrice o aveva previsto di evitare, o lo ha fatto inconsapevolmente, costruendo, con questo film, una sua qualche narrativa [sul genocidio].
Così, alla fine, io non posso che chiamare questo film “La Srebrenica di Jasmila [Zbanić]”. Poi c’è chi gli importa della storia e chi delle acrobazie autoriali filmografiche.
Dopo aver visto questa scena ritiro quella che in diversi mi hanno detto dovrebbe essere il mio atteggiamento, ovvero meglio un qualche film su Srebrenica, che nessuno. No, meglio nessuno, che uno qualunque, ma questo non vi deve impedire di guardarlo, e quando versate una lacrima, che ho sentito essere un obiettivo raggiunto dall’autrice, mi chiedo cosa direte ai vostri figli quando vi chiederanno cosa guardare per conoscere cosa è successo a Srebrenica prima che loro nascessero. Se l’obiettivo è farli piangere, mandateli al cinema [a vedere questo film]. Se l’obiettivo è che sappiano cosa è veramente successo, ditegli che gli toccherà leggere qualche documento, qualche libro, guardare le testimonianze dei sopravvissuti, andare a Potočari, e guardare almeno alcuni documentari sull’argomento. Lo so che l’autrice dichiara che il suo obiettivo non era l’interpretazione degli avvenimenti storici, ma in questa scena, che è molto importante, lei interpreta eccome, e in modo completamente errato.
P.S.: può darsi che per questo commento e altri precedenti sul film in questione, qualcuno mi farà causa, e che lo faccia pure. Penso di comportarmi e di reagire come avrebbe fatto la maggior parte delle persone se fossero al mio posto.
IL PROCESSO CONTRO L’OLANDA
Il processo avviato da Nuhanović contro l’Olanda, per le responsabilità del genocidio, è durato dieci anni ed è finito nel 2013.
L’Olanda si è dichiarata responsabile per il 10% del genocidio e solamente per la sorte di circa 1 migliaio di persone ammazzate tra quelle che erano riuscite ad entrare nel perimetro della base dei caschi blu olandesi. Da una parte, secondo Nuhanović, per una questione economica. In base all’ammissione di responsabilità, gli olandesi devono risarcire le famiglie delle vittime. Ma anche per una costruzione futura della narrativa: le generazioni future di giovani olandesi cresceranno con l’idea che il loro paese ha avuto solo una minima parte di responsabilità nel genocidio di Srebrenica.
L’11 luglio, nel giorno delle Commemorazioni delle vittime del Genocidio di Srebrenica, e a 27 anni di distanza, sono arrivate per la prima volta le scuse ufficiali da parte dell’Olanda, che, con il suo contingente di caschi blu, ha fallito nel compito di difendere la popolazione di Srebrenica nel luglio del 1995. La ministra della Difesa, Kajsa Ollongren, si è scusata per la prima volta con i parenti delle vittime, ammettendo che “la comunità internazionale – di cui l’Olanda fa parte – non è riuscita a proteggere il popolo di Srebrenica”.