Ultima fermata Srebrenica 2024
Anche quest’anno, Arci Bolzano ha organizzato il progetto “Ultima fermata Srebrenica”, un viaggio studio che avvicina i partecipanti alle vicende storiche relative al genocidio di Srebrenica – attraverso lezioni, visite, ma soprattutto numerose testimonianze.
La crisi del sistema socialista jugoslavo vide l’emergere di movimenti nazionalisti – indipendentisti o separatisti – che avrebbero poi portato alle guerre jugoslave. Combattute nell’ultimo decennio del Novecento, trasformarono nel profondo il territorio dei Balcani occidentali. I conflitti furono caratterizzati dalla commissione di crimini contro l’umanità, tra cui stupri etnici di massa e pulizie etniche. Tra questi si annovera la particolare brutalità del genocidio commesso dalle forze armate militari e paramilitari serbe e serbo-bosniache contro la popolazione bosniaco-musulmana (definiti bosgnacchi, dal 1993) della Bosnia orientale. Furono oltre 8.000 le vittime della caccia all’uomo avvenuta nel luglio del 1995.
Il viaggio si articola in diverse tappe, che attraversano la Bosnia Erzegovina per avvicinarsi sempre di più al luogo del genocidio e alle persone che ne sono state colpite: fino a poter mettere insieme tutti i tasselli che permettono di comprendere maggiormente quello che è avvenuto in Bosnia, e in particolare a Srebrenica, ormai 29 anni fa – ma che non per questo deve essere considerato lontano da noi.
Anzi, lo scopo dell’iniziativa è anche questo: contrastare un possibile allontanamento, causato dagli anni che passano, per far capire proprio ai/alle giovani partecipanti del nostro territorio quanto la realtà bosniaca sia loro vicina, e quanto sia ricollegabile ai conflitti che caratterizzano il nostro presente.
Comincia quindi, la mattina di venerdì 4 ottobre 2024, un viaggio di una settimana con una meta che, nei giorni precedenti alla partenza, ha suscitato tante sopracciglia alzate tra i nostri amici e parenti – sia per stupore che per scetticismo, quel classico sguardo da “io non potrei mai”.
Ed effettivamente noi (che siamo una classe di quinta del liceo scientifico Torricelli di Bolzano) ci sentiamo un po’ dei pesci fuor d’acqua tra questi studenti, per la maggior parte universitari, tutti molto convinti e consapevoli, che avevamo già conosciuto durante un weekend di formazione e preparazione al progetto.
E così, tra dubbi e aspettative ha inizio un viaggio di dodici ore (altre sopracciglia inarcate tra i nostri conoscenti), che comprendono soste in piccoli autogrill, una lunga coda alla frontiera, ma soprattutto la visita di un primo luogo della memoria.
Si tratta del Jasenovac Memorial Site, ancora in Croazia, ma non per questo meno collegato alle vicende che ci siamo ripromessi di affrontare: un memoriale che ricorda il campo di concentramento di Jasenovac, messo in piedi dagli ustascia croati, i collaborazionisti nazifascisti insediati da Hitler e Mussolini sui territori di gran parte della Croazia e della Bosnia Erzegovina, dopo l’occupazione del Regno di Jugoslavia, nell’aprile del 1941. Un primo tassello sul portato storico dei rapporti tra i popoli jugoslavi tra le due guerre mondiali, significativo anche per l’uso che ne hanno fatto le propagande nazionaliste degli anni Novanta. Quasi centomila morti, principalmente serbi ortodossi, ma anche rom, ebrei e partigiani di tutte le nazionalità jugoslave oppositori del regime ustascia.
In viaggio verso Sarajevo stupiscono i paesaggi: i villaggi sporadici, le case che a volte hanno tutta l’aria di essere abbandonate, ma soprattutto i cimiteri di lapidi bianche, di una quantità sproporzionata rispetto alle poche abitazioni che li circondano. Capiamo che il territorio bosniaco non è abitato densamente, che le comunità sono piccole e distanti da loro.
Arrivatǝ a Sarajevo ci siamo immersǝ in una visita guidata del centro storico, accompagnato da spiegazioni e spunti di riflessione, a partire dal Ponte Latino – il luogo dell’attentato a Franz Ferdinand e alla principessa Sofia, che fu il casus belli per lo scoppio della Prima guerra mondiale – passando per la contaminazione delle culture che si sono intrecciate nella storia della Bosnia Erzegovina e di Sarajevo in particolare.
La visita al War Childhood Museum di Sarajevo ci permette di scoprire di più sulla storia del luogo. Si tratta di un museo che raccoglie, attraverso oggetti, le testimonianze di innumerevoli bambini che hanno vissuto le guerre jugoslave (ma non solo) e in particolare l’assedio di Sarajevo tra il 1992 e il 1995.
Emerge forte il tentativo di condurre una vita normale, nonostante le atrocità del conflitto, che però lascia segni indelebili. Ne abbiamo un’ulteriore attestazione all’Istorijiski Muzej, che traccia la storia della città, soffermandosi in particolare sull’assedio: l’accerchiamento da parte dell’esercito serbo-bosniaco, le sparatorie e i bombardamenti, ma anche i tentativi di contrastare la violenza perpetrata (tra cui il Tunel Spasa, che abbiamo visitato).
É sempre a Sarajevo che viviamo la prima esperienza di testimonianza: Hasan Nuhanović, testimone diretto, traduttore presso il battaglione dei caschi blu olandesi stanziati a Srebrenica e protagonista del processo contro l’Olanda per responsabilità nel genocidio, che ci racconta di come è sopravvissuto al genocidio, e di come questo abbia segnato il resto della sua vita fino ad oggi.
Il viaggio continua verso Srebrenica dove veniamo Al Memorial Centre Srebrenica trascorriamo una giornata intera: si tratta di un memoriale che ripercorre meticolosamente le diverse tappe del genocidio, anche grazie a diverse registrazioni e interviste, e che ci prepara alla visita della mezarija, il cimitero del memoriale. Comprendiamo ancora di più la portata del genocidio vedendo le circa 6.800 lapidi musulmane – questo è il numero delle persone riconosciute e sepolte in questi anni tra le oltre 8.000 vittime del genocidio – che si estendono per centinaia di metri quadrati.
Veniamo ospitatǝ da famiglie serbe e musulmane e scopriamo ben presto che alcune delle famiglie ospitanti sono state direttamente coinvolte nel genocidio. Si tratta di una rete di famiglie che Arci Bolzano, in collaborazione con Adopt Srebrenica, ha curato in questi anni, per una forma di promozione del dialogo interetnico a livello locale e per creare i presupposti per una struttura di sensibilizzazione e mantenimento dell’attenzione rispetto al genocidio avvenuto a Srebrenica poco meno di trent’anni fa.
Un tassello importante del viaggio studio sono le testimonianze, come quella di Muhamed Avdić, che a trent’anni dal genocidio sta ancora cercando i resti di suo padre e ha incontrato un ex militare serbo-bosniaco che ha visto suo padre vivo per l’ultima volta. Oppure come quella di Zijo Ribić, sopravvissuto al massacro della comunità rom in Bosnia orientale e che ha deciso di perdonare i paramilitari serbi che gli hanno sterminato la famiglia.
A Tuzla abbiamo anche incontrato due attivisti di SOS BalkanRoute, che ci hanno raccontato una storia attuale ma ignorata, quella dei diritti violati delle persone in movimento lungo la cosiddetta rotta balcanica e la questione degli NN, i senza nome morti ai confini dell’Europa.
Si dice che a livello microscopico, due enti non si toccano mai davvero, perché le forze repulsive degli atomi si oppongono a qualsiasi vero contatto: così mi è parso l’incontro con i testimoni – si perdoni la mentalità del liceo scientifico.
Lì in piedi, ad aspettare il momento di raccontare e ascoltare, nulla distingueva studenti e testimoni se non l’età e la lingua. Alla prima frase, si è aperto un divario che a primo impatto sembra incolmabile.
Come empatizzare con un dolore così lontano dal nostro vissuto? “Ultima fermata Srebrenica” mi ha insegnato che la realtà di altri popoli è completamente intessuta nella nostra; che già solo i termini “altri” e “nostra” vanno contro allo scopo a cui tutti dovremmo contribuire: l’abbattimento di categorizzazioni, distanze, generalizzazioni.
Aprirsi alle esperienze di chi ha vissuto ciò che altri possono a stento immaginare, senza appellarsi alla scusa del “non poter capire”.
Raggiungere quel contatto completo che a livello scientifico ci è negato, ma che, grazie a progetti come questo, può essere raggiunto a livello umano.