La lezione bosniaca

Il genocidio di Srebrenica rappresenta il culmine delle atrocità commesse durante le guerre jugoslave degli anni Novanta. Iniziate nel 1991 – all’indomani della caduta del muro di Berlino, nello scenario della fine della Guerra fredda a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, mentre il mondo aveva gli occhi puntati sulla prima Guerra del Golfo – e durate in varie fasi e con diverse intensità fino al 1999, ebbero origine da progetti politici etno-territoriali in conflitto tra loro, prodotti in un contesto di crescente crisi economica e sociale che si trascinava dagli anni Ottanta. Crisi che arrivò a minare gli ideali fondativi della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia – culminati con la delegittimazione della Lega dei Comunisti Jugoslavi (1990) – e a far emergere leadership nazionaliste incapaci di trovare una sintesi ai conflitti politico-istituzionali sul futuro della Jugoslavia. Il progetto centralista gran serbo di Slobodan Milošević era inconciliabile con le istanze di maggiori autonomie volute da Slovenia e Croazia e anche in Bosnia Erzegovina si vedeva difficilmente realizzabile l’ipotesi di rimanere in una Jugoslavia che stava diventando sempre più serbo-centrica. Dopo i referendum per l’indipendenza di Slovenia e Croazia avallati dalla comunità internazionale, Milošević, non riuscendo a realizzare il suo progetto unitarista nelle sedi istituzionali, ricorse all’esercito jugoslavo e nel 1991 cominciarono le guerre di aggressione a Slovenia e Croazia e nel 1992 alla Bosnia Erzegovina, la repubblica più multietnica della federazione jugoslava.

Con la ratifica del referendum per l’indipendenza della Bosnia Erzegovina – boicottato sostanzialmente dai serbo-bosniaci – e il riconoscimento internazionale della sovranità statale, incominciò l’assedio di Sarajevo (aprile 1992) e la guerra di aggressione con l’incorporazione di territori da parte dell’autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina (poi Republika Srpska) – con il sostegno e la regia di Belgrado – che avevano l’obiettivo di espellere o eliminare la popolazione civile non-serba dai territori che dovevano diventare serbi.

La Comunità internazionale si dimostrò impotente e divisa sul da farsi, promuovendo continue mediazioni fra le parti senza però arrivare ad una vera fine del conflitto. Nonostante l’attivazione di una missione internazionale (UNPROFOR), le No-fly zone, minacce di intervento da parte della Nato, soprattutto le forze armate dei serbi di Bosnia continuarono, incuranti, le proprie azioni militari per raggiungere i propri obiettivi politici territoriali.

Dopo una serie di massacri ed emergenze umanitarie l’ONU fu costretta a creare una serie di “aree protette” dalle forze dell’UNPROFOR e con la risoluzione 819 del 1993 fu creata quella della cittadina di Srebrenica, nella Bosnia orientale.

Nel luglio del 1995 le truppe del generale Ratko Mladić violarono l’area protetta di Srebrenica conquistando la città. I civili, intrappolati da molti mesi nell’enclave, scapparono in due direzioni: donne e bambini verso la base dei caschi blu olandesi a Potočari, gli uomini verso le montagne in direzione Tuzla. Il grosso del genocidio di Srebrenica venne commesso nella caccia all’uomo alla colonna che provò a scappare attraverso i boschi. Tutti i prigionieri catturati furono prima assassinati e poi sepolti in fosse comuni. Successivamente le fosse comuni furono segmentate in fosse secondarie nel tentativo di nascondere il crimine. Per questi fatti Radovan Karadžić, presidente della Repubblica Serba di Bosnia, Ratko Mladić comandante delle truppe sono stati condannati dal Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi in ex Jugoslavia (ICTY), istituita nel 1993 dall’Onu, alla pena dell’ergastolo per crimine di genocidio verso 8372 civili. La guerra in Bosnia Erzegovina terminò con l’accordo di Dayton del novembre 1995, che prese nella sostanza atto della “spartizione territoriale” fra le parti, istituendo autorità civili come l’Alto rappresentante ed un complesso assetto istituzionale per prevenire nuovi conflitti.

Nella sostanza, la dinamica del conflitto è continuata con altri “mezzi”, soprattutto di lotta politica durante questi 29 anni, dove una parte della popolazione nega il genocidio ed un parte è ancora alla ricerca di verità e riconoscimento. Negli ultimi mesi sono però intervenuti due fatti nuovi. Prima l’Alto rappresentante Schmidt ha cercato di portare termine il lavoro del suo predecessore nella lotta al negazionismo poi, nel maggio di quest’anno l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione che istituisce l’11 luglio come giornata in ricordo del genocidio di Srebrenica e promuove strumenti educativi per la prevenzione e la tutela dei diritti umani. 

Il conflitto degli anni Novanta in ex Jugoslavia è stato il primo conflitto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. La lezione bosniaca ci insegna che il mancato rispetto dei diritti umani, la mancanza di una compiuta ricerca di verità e giustizia, le responsabilità della comunità internazionale, l’incapacità a trovare soluzioni ai conflitti portano inesorabilmente il mondo a ricadere nel baratro che collettivamente ci siamo illusi di aver lasciato nel Novecento.

di Sergio Bonagura, Andrea Rizza Goldstein


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